Viaggio tra due decenni. Parte quinta
1-2 gennaio 2020: Colonia
Mi trovo in viaggio con grande anticipo sulla tabella di marcia verso la mia città-sogno: Colonia. Desideravo conoscerla da anni ed ora finalmente ho questa grande occasione. È una città la cui perfezione si situa nel modo armonioso con cui presente e passato si fondono, regalando le migliaia di sfumature del tempo della storia. La modernità non invade il suo passato ed entrambi si compiacciono per questa loro intesa.
Dall’albergo mi affaccio alla finestra e osservo l’anfratto più intimo del mio sogno: la Cattedrale, causa prima del mio accecante amore per l’architettura gotica. Essa racchiude in sé una storia infinita che sprofonda nel Medioevo, risale a galla fra i secoli della Germania prussiana, nell’Ottocento, fino a sopravvivere al dramma bellico del XX secolo, quando l’amore degli scalpellini impedì che gli incendi causati dalle bombe sul tetto inghiottissero il duomo intero. Come facevano? Spegnevano le fiamme giusto in tempo, tra il sibilare di una bomba e l’altra. Lo facevano al costo della vita.
Le sue pietre scure, estratte dalle cave vicine e trasportate in città grazie al Reno, raccontano dell’ambizione di Mastro Gerardus (Gerhard in tedesco) che, ispiratosi alle grandi cattedrali francesi (a quella di Amiens, in particolare), sfidò secondo la leggenda persino il demonio pur di creare un gigante ancora più grande e ambizioso. Il diavolo lo punirà spingendolo da un’impalcatura del cantiere. Ma siamo davvero sicuri che uccidendo Gerhard abbia vinto? Affatto: la memoria del Mastro sarà invece trasmessa nei secoli, quando i suoi progetti e il cantiere abbandonato sarebbero stati fatti risorgere per volere della corte prussiana. Alla cerimonia per celebrare il completamento dell’opera presenziò l’imperatore di Germania Guglielmo I: si era compiuto non solo il volere di Dio, ma anche (e soprattutto) quello dello spirito del popolo e della nazione tedesca…
Fa freddo, è un freddo nordico, gelido, ma la vista di quel gigante di pietra mi farebbe resistere a mille intemperie. Vi transito davanti diverse volte, alzo la testa e mi perdo a fantasticare in quella foresta scura di arte e storia. È immensa: l’altezza delle due torri in facciata è spropositata.
La guardo e la riguardo, cerco di dire qualcosa che possa essere ricordato, che qualifichi in qualche modo tutto ciò che il mio cervello sta imprimendo nel mio cuore. “Che bella”: sono le uniche due parole che mi escono di bocca, ripetute più volte come una preghiera o semplicemente per ricordare a me stesso la mia convinzione. Sono parole semplici, scontate, forse banali, ma non riesco a produrre di meglio. È nuovamente contemplazione. Per me il Duomo di Colonia è un sogno che si avvera.
Di sera la luce se ne va, ma a Colonia un’altra luce sorge: i monumenti principali della città si illuminano e dominano il paesaggio notturno, specchiandosi sulle acque del Reno che scorre producendo un fruscìo surreale. Attraverso la Hoenzollernbrücke, il ponte con le sue tre grandi campate ad arco, forse più celebre di Colonia, e ammiro ancora una volta la Cattedrale: antico lontano e moderno vicino, la storia continua.
I traghetti navigano sulle acque scure del grande fiume e accompagnano la notte tranquilla. Non ricordo sinceramente il rumore del traffico: la vista ha dominato gli altri quattro sensi. Dalla quiete delle rive del Reno mi lascio trasportare dai rumori della notte in una sorta di villaggio di Natale, prossimo alla chiusura ma ancora vivo e festoso. I profumi del cibo e del vino allontanano il gelo. Si festeggia sotto gli occhi vigili dell’architettura monumentale. Si pattina e si ride: ci si sente a casa, a chilometri di distanza in una città assolutamente splendida. Non dimenticherò mai questo gioco di silenzi e strilli nella notte invernale di Colonia.
L’indomani entro finalmente nel mio sogno infinito. Il Duomo mi si presenta internamente con le usuali altezze vertiginose dello stile gotico. Ci si dovrebbe annoiare, penserete voi, vedendo ogni volta queste navate altissime e provando questo senso di vertigine. Tuttavia non ho mai trovato due cattedrali simili o identiche nell’esprimere questa caratteristica: i colori, le proporzioni, la struttura variano di volta in volta. Ci si trova come di fronte a una scoperta nuova ed emozionante: sono pianeti o lune su scala ridotta e noi viaggiatori siamo gli astronauti che si producono in questi continui allunaggi. Le sue navate sono tra le più alte del mondo e seguono lo schema del quadrato: la larghezza delle navate e l’altezza della navata principale doveva essere identiche, come se vi fosse un quadrato che si sviluppava in alzato nello spazio interno della costruzione. Equilibrio, proporzioni, precisione: nulla era lasciato al caso.
I muri della Cattedrale sembrano sottili mentre le vetrate, eterne e sterminate, contribuiscono ad un effetto di luce pura e diffusa. Si stimano oltre 10.000 metri quadrati di vetrate istoriate. Insomma i muri si nascondono, le finestre non conoscono timidezza. Sono sterminata bellezza della creatività umana.
La mattina è ancora lunga e dunque decido di visitare i due musei principali di Colonia, il Wallraf-Richartz Museum e il Museo Ludwig, trovandomi di fronte a grandi capolavori e nuove sorprese prima sconosciute. Ne esco, dal primo, con gli occhi meravigliati da una mostra temporanea su Rembrandt. Amo perdermi nelle mostre tematiche perché sono convinto che narrino qualcosa in più di ciò che una semplice galleria d’arte può fare. Si segue un filo logico e una storia, prima ancora che una selezione meramente cronologica di quadri. Non conoscevo a fondo Rembrandt e il suo mondo perennemente in bilico tra oscurità e un chiarore aranciato di speranza. Rimango destabilizzato dal suo “Autoritratto ridente”, da quel sorriso autoironico, sospeso tra la dolcezza e una punta di perfidia di un uomo che ammette di saper ridere di sé proprio quando sembra specchiarsi nel suo osservatore. Forse ride di se stesso perché deride l’umanità intera, a cui sa di appartenere.
Il museo rigenera anche la mia passione per la pittura impressionista. Sedimento di fronte a un dipinto delle ninfee di Monet per minuti che appaiono tutt’altro che interminabili. Scorrono anzi troppo rapidi ma sembrerebbero bastare affinché quelle macchie di colore ti penetrino dentro e si iniettino negli occhi. Riscopro l’arte paesaggistica del XVIII-XIX secolo e comprendo sempre di più che, sebbene sembri ritrarre solo un ambiente o un paesaggio, nasconde molto di più: quel sentimento Romantico e quell’attanagliamento di fronte all’esotico, all’Oriente, al nuovo ancora sconosciuto.
Attraverso la visita del secondo museo rivaluto invece l’arte contemporanea: forse il mio animo si è sensibilizzato nel tentativo di capirla, comprenderla. L’enorme sala dedicata a Picasso nasconde nelle vicinanze collezioni surrealiste e metafisiche, mentre mi trovo piacevolmente cullato dai ricordi liceali quando vedo di fronte a me il dipinto “Cinque donne per strada” di Ernst Ludwig Kirchner. Riconosco nella sua pittura nervosa, confusa e ricca di messaggi nascosti tutta la trepidazione per il secolo breve della modernità che era alle porte: la psicosi della guerra e la serializzazione dell’arte. Percepisco un qualcosa che tale arte cerca di comunicarmi, talvolta lo colgo ma altre volte comprendo che si tratta di una sensazione ancora troppo acerba per poterla capire fino a fondo.
Abbandono Colonia con un rammarico che non mi aveva prima d’ora afflitto in nessun’altra città. Transito nuovamente di fronte al Duomo e il suono della campana maggiore risuona l’ennesima volta, che sarà anche l’ultima per questo viaggio: penetra sottopelle, si mescola con il mio sangue. “Che bella”. È magia.